1.IL QUARTO LIBRO 2.LA FIGURA DI PROSERPINA NEI FASTI 3.COME APPARE CERERE NEI FASTI DI OVIDIO 1.IL QUARTO LIBRO Il mito di Proserpina appare anche nel libro IV dei Fasti di Ovidio. Quest'opera è divisa in mesi, ad ognuno di questi corrisponde una divinità e tutti i racconti ad essa collegati. Il libro IV si apre con l'invocazione della dea Venere da parte di Romolo; questi cerca in lei consiglio e protezione per tutto il mese di aprile, periodo della primavera. Lei è madre di tutti gli dei, figlia della spuma del mare e creatrice delle bellezze della natura. Inizia il mese di aprile e Venere invita le nuore e le madri del Lazio ad unirsi per un bagno con lei, la quale vuole rendere omaggio alla fortuna virile. Nei giorni 11 e 12 troviamo il racconto del ratto di Proserpina. Cerere, generatrice di messi e bionda dea con la capacità di sottomettere i tori al giogo, viene convocata da Aretusa per prendere parte ad una tavola in compagnia delle madri dei numi. Sua figlia, la vergine Proserpina, si accinge come sempre ad errare per i campi insieme alle sue compagne. Filia, consuetis ut erat comitata puellis,/ errabat nudo per sua prata pede./ Ualle sub umbrosa locus est aspergine multa/ uuidus ex alto desilientis aquae./ Tot fuerant illic, quot habet natura, colores,/ pictaque dissimili flore nitebat humus./ Quam simul aspexit, " comites, accedite " dixit/ " et mecum plenos flore referte sinus. "/praeda puellares animos prolectat inanis,/ et non sentitur sedulitate labor./ Haec implet lento calathos e uimine nexos,/ haec gremium, laxos degrauat illa sinus;/ illa legit calthas, huic sunt uiolaria curae,/ illa papauereas subsecat ungue comas;/ has, hyacinthe, tene; illas, amarante, moraris;/ pars thyma, pars rhoean et meliloton amat;/ plurima lecta rosa est, sunt et sine nomine flores:/ ipsa crocos tenues liliaque alba legit./ Carpendi studio paulatim longius itur,/ et dominam casu nulla secuta comes. La figlia, come sempre, dalle compagne seguita errava a piedi nudi per il solito prato. Nel fondo d'una valle ombrosa v'è un luogo bagnato dai copiosi spruzzi d'una cascata d'acqua. Eran, lì sotto, tanti color quanti n'ha la natura e la terra splendea variopinta di fiori. La figlia a quella vista disse: "Venite, compagne, e con me riempite di fiori il vostro grembo!" Il labile bottino alletta quei giovani cuori; e, intente a quella colta, non senton la fatica. Empie l'una i canestri intrecciati di vimini lenti, il grembo un'altra e quella le pieghe ampie dell'abito; chi raccoglie fiorranci; chi le viole gradisce; v'è chi taglia con l'unghie dei papaveri i gambi; e tu questa, o giacinto, trattiene; tu quella amaranto; parte ama il meliloto, parte la cassia o il timo. Si accolser più assai rose; pur fiori vi son senza nome: ella coglieva gigli bianchi e tenue croco. A poco a poco vanno più lungi per cogliere fiori: nessuna per disgrazia seguì la sua padrona Alla presentazione della vergine Proserpina segue l'atto del rapimento. Suo zio la vede e immediatamente la ruba, portandola con il suo carro nel regno delle tenebre che era da lui controllato. Atterrita la fanciulla grida "Io, carissima mater, auferor!" ( "Ahi sono rapita, carissima madre!" ) ma le sue urla sono inutili poiché né la madre né le compagne possono sentirla. Nel frattempo il carro di Dite fa ingresso nell'oltretomba perché i suoi cavalli, non abituati alla luce del sole, la tollerano a stento. Proserpina continua a gridare aiuto e le sue compagne sentendola riecheggiano: "Persephone, ad tua dona veni!" ("O Persefone, vieni ai fiori che ti cogliemmo!") Cerere sentendo tali urla si stupisce e domanda: "Me miseram! Filia ubi es?" ("Povera me! Dove sei figlia?"), spaventata corre a cercarla, e qui Ovidio precisa, "ut quas audire solemus Threicias fusis Maenadas ire comis." ("come si suole narrare che faccian le Baccanti tracie col crine sciolto. Lo stato d'animo di Cerere viene poi paragonato a quello di una vacca che mugghia perché le viene tolto il vitellino dalla poppa e lo cerca per tutta la foresta, allo stesso modo, ci dice Ovidio, la dea non frena il dolore e corre furente per tutte le campagne di Enna. Trovando le orme di un piccolo piede che a lei era familiare segue per quella via e giunge in molti luoghi quali, per esempio, Agrigento, il fiume Anapo, la fonte della ninfa Ciane. Ovunque va chiama la figlia, invoca il suo nome ma invano perché ormai è lontana e non può sentirla. In questo suo lungo viaggio significante è l'incontro della dea col vecchio Celeo… Fors sua cuique loco est: quod nunc Cerialis Eleusin/ dicitur, hoc Celeirura fuere senis./ Ille domum glandes excussaque mora rubetis/ portat et arsuris arida ligna focis./ Filia parva duas redigebat monte capellas,/ et tener in cunis filius aeger erat. Hanno anche i luoghi il loro destino.quel ch'ora si dice Eleusi Ceriale fu campagna del vecchio Celeo, che ghiande e more spiccate dai rovi portava e legne secche da bruciare sul fuoco. Spingea la figlioletta giù da una rupe due capre e un bambinello infermo giaceva nella culla. Cerere sente la figlia del vecchio rivolgersi a lei con l'appellativo madre. La dea si commuove giacchè sua figlia, la vergine Proserpina, le è stata rapita. Particolare è il pianto di Cerere che, essendo una divinità, non ha lacrime ma, in questa situazione particolarmente commovente, "decidit in tepidos gutta sinus"( le cadde nel sen caldo una lucida stilla). Dopo ciò il vecchio Celeo parla a Cerere dell'infermità del figlioletto che è nella culla. La dea si propone di guarirlo e, una volta entrata in casa, salutata la madre, Metanira, bacia il fanciullo e questi riprende il vigore che aveva perso. Il padre, la madre e la sorella ne gioiscono; preparano la mensa ma Cerere non mangia. Era mezzanotte quando la dea prende in grembo il piccolo Trittolemo, l'accarezza tre volte pronunciando tre versi che "carmina mortali non referenda sono" ("non può riferire la bocca di un mortale") copre poi il corpo del fanciullo con cenere calda per far sì che possa divenire immortale. La madre si sveglia all'improvviso e, pensando che Trittolemo fosse in pericolo, lo toglie scelleratamente dalle braccia della dea, scatenando l'ira di quest'ultima che risponde: "dum non es, scelerata fuisti: inrita materno sunt mea dona metu. Iste quidem mortalis erit: sed primis arabit et seret et culta praemia tollet humo. " ("Tu fosti, senza voler, scellerata: è fatto il dono mio vano dal tuo timore. Sì, resterà mortale; ma egli arerà per il primo, seminerà ed il premio avrà dal culto suolo.") Detto ciò avvolta in una nube, torna al suo carro. Riprende da qui il suo viaggio e chiede aiuto alle stelle "arcadi" per trovare sua figlia. "Parrhasides stellae, - namque omnia nosse potestis,/ aequoreas numquam cum subeatis aquas -/ Persephonem natam miserae monstrate parenti!" "Arcadi stelle - voi tutto potete sapere poiché non vi tuffate mai nell'onde del mare -, Persefone mostrate voi alla misera madre!" Ma Elice, la stella polare, le disse: "Crimine nox vacua est; Solem de virgine rapta consule, qui late facta diurna videt" ("La notte è senza colpa. Pel rapimento della figliuola consulta il sol, che le vicende del dì vede per tutto."). Con queste parole Cerere viene informata che il rapimento della figlia è avvenuto di giorno. Subito la dea va dal sole che le dice: "Quam quaeris ne vana labores, nupta Iovis fratri terzia regna tenet." ("Quella che cerchi perché invan non fatichi, sposa al fratel di Giove, ha il terzo regno.") Saputo che colpevole del rapimento è Plutone, fratello di Giove, la dea si reca da quest'ultimo. "Si memor es, de quo mihi sit Proserpina nata,/ dimidium curae debet habere tuae./ Orbe pererrato sola est iniura facti/ cognita: commissi praemia raptor habet!/ At neque Persephone digna est praedone marito,/ nec gener hoc nobis more parandus erat./ Quid gravius victore Gyge captivam tulissem,/ quam nunc te caeli sceptra tenente tuli?/ Verum inpune ferat, nos haec patiemur inultae;/ reddat et emendet facta priora novis." "Se ricordi da chi mi nacque Proserpina, deve almeno per metà avere le tue cure. Dopo che corsi il mondo, m'è noto soltanto l'insulto del furto: il rapitore ha il premio del misfatto! Ma mia figlia per sposo non merita un ladro né noi in così fatto modo la si dovea sposare. Se Gia avesse vinto, che avrei prigioniera patito di più di quel che soffro, mentre tu reggi il cielo? Pure vada impunito; inulta ne soffro l'oltraggio; ma mi renda la figlia: così il passato ammendi!" Giove così le risponde… "Nec gener est nobis ille pudendus" ait;/ "non ego nobilior: posita est mihi regia caelo,/ possidet alter aquas, alter inane chaos./ Sed si forte tibi non est mutabiles pectus,/ statque semel iuncti rumpere vincla tori,/ hoc quoque temptemus, siquidem ieiuna remansit;/ si minus inferni coniugis uxor erit." "Né genero è per noi, disse, da vergognarci. Né io sono più nobile: a me fu sortita la reggia del cielo, un altro ha il mare, il terzo è re dell'ombre. Se poi il tuo dolore per caso non si può mutare e hai fermo che si rompa il nodo coniugale; tentiamo pure, a patto che sia rimasta digiuna; se no, resterà moglie dello stigio marito." Arrivati a quest'accordo, Giove manda Mercurio nell'Ade ad avvisare la giovane fanciulla e il suo sposo di quanto stabilito. Mercurio torna e informa che la giovane Proserpina aveva rotto il digiuno mangiando tre chicchi da melagrana. Cerere è disperata e dice a Giove che se la figlia non sarebbe tornata sulla terra, lei sarebbe scesa nell'Ade; e ci sarebbe andata se non fosse stato deciso da Giove che Proserpina dovesse trascorrere sei mesi sulla terra con la madre e i restanti sei negli inferi con il suo sposo. Ne gioisce di questo Cerere che, tolte le sue vesti a lutto, e indossati abiti bianchi, riprende a curarsi della fertilità dei campi che per lungo tempo erano stati incolti. Largaque provenit cessatis messis in arvis,/ et vix congestas area cepit opes./ Alba decent Cererem: vestis Cerialibus albas/ sumite; nunc pulli velleris usus abest. Nei campi, ch'eran stati incolti, fu larga la messe, e l'aie a stento i mucchi contennero del grano. S'addice il color bianco a Cerere: nelle sue feste mettete abiti bianchi; e via le lane a lutto! Così Ovidio conclude la narrazione del ratto di Proserpina. 2.LA FIGURA DI PROSERPINA NEI FASTI Nei fasti di Ovidio la vergine Proserpina accompagnata dalle compagne di gioco erra per i campi, così come era solita fare, cogliendo fiori. Ovidio si sofferma a descrivere l'atmosfera gioiosa, circondata da un percepibile velo di ingenuità che fa da cornice a tutto il rapimento. La stessa descrizione dei fiori e la successiva evidenziazione dell'abito strappato nella sua parte superiore, non sono altro che elementi aggiuntivi ritenuti però significativi dall'autore, per sottolineare la castità della ragazza, che viene immediatamente "spezzata" nel momento del compimento del ratto. Perciò non vi è una descrizione fisica della fanciulla, ma solamente un forte accostamento paesaggistico che ne sottolinea il ruolo nel racconto. In relazione alla flora presente, possiamo riconoscere 11 specie di fiori citati. Nel verso 437 i fiorranci e le viole sono i primi ad essere colti;con le unghie c'è chi raccoglie i papaveri nel verso 438 e il giacinto e l'amaranto trattengono le fanciulle nel verso 439. Poi alcune compagne si curano del meliloto, della cassia e del timo,citato nel verso 440. Il germoglio a cui si presta più cura è quello della rosa(v.441) e il giglio bianco e il tenue croco nel verso 442 concludono il quadro floreale. Viene anche sottolineata la presenza di fiori senza nome (v,441) e ciò può solamente richiamare il motivo estetico-allegorico dietro cui è celato tutto il ratto. L'abbondanza di fiori e l'esaltazione armoniosa di una natura risplendente che incorona il rapimento, attirano l'attenzione del lettore e lo guidano in un viaggio eccitante,ricco di colpi di scena che caratterizzano tutto il ratto e il suo stesso significato e il forte contrasto che si crea tra la rigogliosa natura e il suo cupo ingresso di dite lasciano pensare ad un miscuglio di colori che si fondono per delineare un curioso episodio mitologico. 3.COME APPARE CERERE NEI FASTI DI OVIDIO "Pace Ceres laeta est" ("Cerere ama la pace"). Così Ovidio introduce questa dea, figura mitologica, pacifica protettrice dell'agricoltura e della fertilità dei campi. Ci racconta, poi, come è onorata dai coloni "vos orate, coloni, perpetuam pace pacificumque ducem. Farra dea micaeque licet salientis honorem detis et in veteres turea grana focos; et, si tura aberunt, unctas accendite taedas: parva bonae Cereri, sint modo casta placent." ("Voi le chiedete, o coloni, perpetua la pace e pacifico il Duce! Basta che l'onoriate di farro e d'un poco di sale crepitante e d'incenso sopra gli antichi altari; e, se manca l'incenso, accendete le faci untuose: le piacciono i tenui doni purché fatti da animi puri.") La Trinacria è la sede a lei cara. Una divinità sensibile, a tal punto che piange (cosa impossibile alle divinità), ma allo stesso tempo tenace, cerca la figlia invano ed è disposta ad andare nell'Ade se giove non la riporta sulla terra. "Nec nobis caelum est habitabile, taenaria recipi me quoque valle iube!" ("non debbo più star ne pur io qui e tu comanda che pur me l'Ade accolga."). Significante nel racconto è l ' incontro con Trittolemo, giovinello infermo figlio di Celeo. La dea lo guarisce, ma vuole renderlo immortale, il suo intento fallisce giacchè la madre, Metanira, agendo impulsivamente lo toglie dalle braccia della dea. Ovidio conclude il racconto dicendo che a Cerere, nei giorni di festa a lei dedicati, sono attribuite le vesti bianche simboleggianti gioia e allegria. "Alba decent Cererem: vestis Cerialibus albas sumite; nunc pulli velleris usus abest." ("S'addice il color bianco a Cerere: nelle sue feste mettete abiti bianchi; e via le lane a lutto!") Giannella, Trippa, V sez. D
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